
DIANA DI PIETRO, Direttore Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche ASL ROMA 6
GIUSEPPE DUCCI, Direttore Dipartimento Salute Mentale ASL ROMA 1
FABRIZIO STARACE, Direttore Direttore Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche AUSL MODENA
Il testo che segue è la trascrizione della tavola rotonda tenutasi nel corso del convegno NUOVE PROSPETTIVE IN SALUTE MENTALE, Roma 19/03/2024
Ducci: La parola a Diana Di Pietro per aprire la discussione. Mi fa molto piacere che siano presenti qui due Direttori di Dipartimento che hanno caratteristiche molto diverse tra loro. Innanzitutto Diana è una neuropsichiatra infantile e credo che noi dobbiamo fare molta attenzione ad evitare il monopolio psichiatrico, dobbiamo considerare la necessità che ruoli apicali nei dipartimenti vengano ricoperti da neuropsichiatri infantili e da psicologi, medici delle dipendenze, cioè da tutti coloro che fanno parte dei dipartimenti inclusivi. Perché ritengo che il dipartimento inclusivo, dell’età evolutiva e delle dipendenze, sia il modello organizzativo che maggiormente risponde alle esigenze attuali.
Altro aspetto è che rappresentano due realtà diverse sia da un punto di vista geografico che da un punto di vista demografico. Diana Di Pietro dirige il Dipartimento cosiddetto dei Castelli, che comprende Frascati, Rocca di Papa, fino a Velletri e che arriva anche fino al mare, con Anzio e Nettuno, passando per delle zone che erano Cassa del Mezzogiorno, che hanno avuto quindi un grande sviluppo industriale come Pomezia e Ardea, dove hanno sede anche delle aziende farmaceutiche.
Invece Fabrizio Starace dirige un Dipartimento che ha una provincia intera, che è la provincia di Modena, con delle aree molto diverse fra loro. Un’area montana, vi ricordo che Modena è stata non solo la città di Ciro Menotti e dei Moti del 1830, ma è stata una delle aree italiane più coinvolte nella lotta partigiana, proprio per questa sua montagna. Poi ha una città di straordinario valore artistico e culturale. E poi c’è una pianura con uno sviluppo di attività produttive di altissimo livello; c’è il distretto delle biotecnologie, con una forte presenza anche di immigrati, e quindi anche con un importante mix culturale. A tutto questo si aggiunge che Fabrizio Starace è Presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, ed è l’erede di quella visione di sanità pubblica basata sulle evidenze scientifiche, sui dati, attenta a collegare l’epidemiologia con la realtà clinica, che in Italia ha trovato il suo più importante mentore in Michele Tansella, che era professore di psichiatria a Verona e che aveva dipartimentalizzato la sua cattedra. Tansella dirigeva il Dipartimento di Verona Sud, Borgo Roma per la precisione, che comprendeva SPDC, Centro di Salute Mentale, gli appartamenti protetti, i Centri Diurni, e associava quindi ad una attività territoriale completa anche un’attività di ricerca molto importante attraverso un Registro psichiatrico che, primo in Italia, ha permesso di poter registrare tutto quello che avveniva nella popolazione per quanto riguarda la salute mentale. Spero che la maggior parte di voi abbia letto il Manuale di psichiatria territoriale di Tansella e Thornicroft, libro fondamentale per chi lavora in quella che nel mondo si chiama la community psychiatry e che noi chiamiamo la salute mentale territoriale.
La domanda è questa: quali cambiamenti organizzativi, quali strategie di fronte ad un mondo che cambia sia dal punto di vista sociale che ideologico?
Di Pietro: Buongiorno a tutti. È veramente un piacere essere qui, perché questa mattinata mi sta sollecitando molte domande, che pongo anche a voi. Sono Direttore del Dipartimento della ASL Roma 6 da tre anni e mezzo, prima mi occupavo di neuropsichiatria infantile. Prima ancora ho lavorato nei SERD e nel pronto intervento psichiatrico, quindi ho fatto un po’ di tutto nel corso della mia carriera professionale, dalla laurea nell’85 e in quasi quarant’anni di servizio. Direi che ciò che mi ha sollecitato di più in questo periodo, e che abbiamo sentito anche questa mattina, è la riflessione su come poter organizzare i nuovi dipartimenti inclusivi. Negli interventi precedenti si parlava di mettere insieme le risorse, ma sono integrate queste risorse? Perché mettere insieme delle risorse, unendole in un unico dipartimento inclusivo con tre ambiti forti, dove ognuno ha una propria cultura e una specifica formazione, non è così semplice. Ho avuto modo di sperimentarlo. Ho cercato di superare certe difese, ogni ambito tenta di difendere il proprio campo di applicazione, il proprio modello. In certi casi stare insieme può diventare uno stare insieme dal punto di vista amministrativo.
Ma sarebbe molto riduttivo. Inoltre ci sono diversità nel Lazio, difformità che riguardano il personale che sicuramente è più numeroso nelle ASL centrali. Anche se ROMA 6 è la ASL dei Castelli è comunque considerata zona periferica e i professionisti, che sono diventati sempre più scarsi, non sono così disposti a spostarsi quando c’è una richiesta forte al centro della città. Diciamo che noi abbiamo una minor “potenza di fuoco” rispetto alla ASL ROMA 1 e bisogna fare i conti anche con un’organizzazione sostenibile. Diversi fattori quindi, da una parte dobbiamo mettere insieme ambiti diversi che spesso non hanno un linguaggio comune, dall’altra abbiamo un problema di sostenibilità, perché non c’è tutto il personale di cui ci sarebbe bisogno. E allora come facciamo?
Siamo partiti anni fa, provando a mettere insieme le forze ancora prima di costruire il Dipartimento. Ci ha aiutato molto il progetto ESORDI che abbiamo realizzato tra il 2012 e il 2014, portato avanti congiuntamente con l’Università La Sapienza. Sono venuti gli specializzandi dal S. Andrea che hanno condotto una valutazione strutturata su ragazzi che accedevano ai Servizi della Neuropsichiatria Infantile, ai CSM giovani e ai SERD. Abbiamo portato avanti insieme questo lavoro con loro che erano più giovani, universitari, e meno formati sull’appartenenza al Servizio e a un modello, e per loro è stato anche più facile accedere a certe “contaminazioni”, in senso buono.
Avere a che fare con ragazzi giovani e con una valutazione condivisa degli esordi ha permesso anche di comprendere meglio quelli che preferisco chiamare esiti, anziché esordi. A conclusione della ricerca, abbiamo condotto un follow up, selezionando due gruppi per un’ulteriore valutazione a distanza, uno composto da ragazzi più a rischio, UHR, e un gruppo non UHR, che avevano ricevuto la stessa valutazione. Bene, quelli UHR erano ragazzi che presentavano diversi disturbi del neurosviluppo, diversamente da quelli non UHR, che non mostravano una presenza così evidente di disturbi del neurosviluppo come nel primo gruppo. Da lì abbiamo iniziato ad essere più attenti ad individuare quali potessero essere i fattori di rischio e i precursori nell’ambito del neurosviluppo, cercando di capire perché certi ragazzini, visti da piccoli, andassero incontro ad una sintomatologia psichiatrica nel corso della preadoloescenza e in adolescenza, pur non avendo presentato un quadro clinico importante in prima infanzia. Abbiamo iniziato a fare delle ipotesi, con i terapisti, logopedisti in genere, e con colleghi psichiatri che lavorano nel gruppo per la diagnosi e la valutazione dello spettro autistico in adolescenza e in età adulta. Questo è un gruppo multidisciplinare, dove sono presenti psichiatri, psicologi dell’età evolutiva, psicologi dell’età adulta, anche colleghi delle dipendenze patologiche, perché anche in questi settori sono presenti ragazzi con tali problemi. Sono presenti, in misura minore certo, ma sono comunque presenti persone con disturbi dello spettro autistico, disabilità intellettive, ADHD, ragazzi con disturbi di apprendimento gravi, in tutti i servizi del dipartimento. Abbiamo intanto iniziato a comprendere dall’autismo, perché l’autismo è un esempio emblematico: se studiamo l’autismo riusciamo anche a capire tutti gli altri disturbi del neurosviluppo. L’autismo e la disabilità intellettiva rappresentano i disturbi globali del neurosviluppo. Perché? Perché comprendono diverse funzioni mentali che emergono e si riorganizzano durante lo sviluppano progressivamente. L’autismo e la disabilità intellettiva le comprendono un po’ tutte. Diciamo che avere un problema del neurosviluppo di questo tipo vuol dire anche avere più funzioni mentali compromesse. E questo può predisporre in adolescenza, anche in presenza di un disturbo lieve, all’insorgenza di un disturbo o una sintomatologia psichiatrica? Ci stiamo concentrando maggiormente su funzioni esecutive e abilità pragmatiche nei disturbi di linguaggio, nell’ADHD, oltre che nell’autismo, e questo ci sta aiutando a comprendere meglio le traiettorie evolutive. Studiare in modo più approfondito lo sviluppo delle abilità pragmatiche e non solo quelle più inerenti la produzione del linguaggio (aspetto fonologico, sintattico, lessicale), ci ha portato a comprendere che i ragazzini che presentano un disturbo più evidente della comprensione del linguaggio che interessa le abilità pragmatiche, è un ragazzino che intorno all’età puberale potrebbe presentare un problema nello sviluppo del pensiero stesso e avere quindi un maggior rischio di evoluzione verso un disturbo mentale in età adulta.
Bisogna considerare che le abilità pragmatiche sono quelle che ci permettono di comprendere i modi di dire, di capire che cosa c’è nella mente dell’altro, di capire le frasi idiomatiche, le metafore, la comunicazione non verbale, di costruire capacità sociali e relazionali adeguate. Pensate quante e quali difficoltà si possono avere nell’interpretazione del linguaggio comune usato nella conversazione e nell’interazione con l’altro, quanto le persone con tali difficoltà possono comprendere e quanto, in qualche modo, il pensiero che si sviluppa in maniera rigida solo su certi canali interpretativi ma non su altri, potrebbe influenzare la capacità di comprendere. In genere la rigidità cognitiva che ne deriva incide sulla possibilità di utilizzare diverse possibili interpretazioni della realtà e delle interazioni. Di fronte ad altri fattori di rischio, come ad esempio la pandemia e l’isolamento che ne è derivato, un trauma, come una malattia di un genitore o altro, queste difficoltà possono influire in maniera più pesante rispetto ad un bambino che non presenta tale compromissione.
Quindi abbiamo lavorato su come aggiustare il tiro e approfondire la valutazione delle funzioni mentali nella valutazione dell’ADHD, come nella valutazione dell’autismo aggiungendo una valutazione delle abilità pragmatiche. Alcuni studi hanno evidenziato che bambini con autismo presentano una importante alterazione delle abilità pragmatiche, quelli ADHD o con disturbo della comunicazione sociale presentano una compromissione intermedia e altri, che presentano con disturbi minori del neurosviluppo come i disturbi del linguaggio, non mostrano una compromissione. Potremmo dedurre che è a rischio non solo un bambino autistico, ma anche un bambino con ADHD, anche se in misura minore.
L’ADHD che ha un’incidenza tra il 3 e il 5% in letteratura, in adolescenza la metà dei casi purtroppo evolve. Noi riusciamo a trattare quelli “trattabili”, quelli su cui si è riusciti a fare interventi, trattamento farmacologico, interventi con i genitori. Ma ci sono ragazzini che provengono da situazioni particolari che non possono essere seguiti in maniera continuativa. Una buona parte evolverà verso l’uso di sostanze e/o disturbi del comportamento e della condotta.
Pensando poi alla disabilità intellettiva, anche ragionando su ciò che per esempio avviene in carcere per alcuni nostri pazienti, e la lettura delle perizie psichiatriche degli autori di reato. Vedere queste perizie e certe situazioni spesso riconducibili a persone con disabilità intellettiva, richiede una riflessione su cosa si stia facendo e dove si stia andando.
Insomma, dobbiamo cercare di valutare le persone da un punto di vista diverso, con un approccio diverso, perché il modello finora usato, anche per pazienti con problema di salute mentale che commettono reati, non si adatta alle condizioni che oggi ci si presentano.
Queste riflessioni ed esperienze ci hanno aiutato a realizzare eventi formativi che ci hanno permesso di costruire dei percorsi trasversali che abbracciano tutte e tre le aree dipartimentali, (TSMREE, CSM e SERD), condividendo modelli, percorsi, protocolli diagnostici. Oggi nei CSM c’è un protocollo di accoglienza per sospetto autismo per i ragazzi che accedono con un’età tra i 18 e i 35 anni, che presentano ad esempio un disturbo ossessivo compulsivo, depressione, sintomatologia psicotica. A questi va fatta un’anamnesi particolareggiata per approfondire elementi del neurosviluppo, con domande specifiche, che gli infermieri esplorano in accoglienza. Dispongono di un protocollo di primo livello e uno di secondo livello, per il quale interviene un’equipe composta sia da operatori per gli adulti che per l’età evolutiva con formazione specifica. Tutto questo ci ha permesso di iniziare a condividere anche mentalmente qualcosa di diverso, ad adottare modelli condivisi nei percorsi di diagnosi e trattamento, non solo a stare vicini da un punto di vista amministrativo. Stessa cosa l’abbiamo fatta per il gruppo di lavoro per il rischio suicidario, in adolescenza e in età adulta, costruendo un percorso comune. Lo stiamo facendo anche per l’ADHD, realizzando un gruppo trasversale con tutti gli operatori delle diverse aree TSMREE, CSM e SERD, multidisciplinare ed interdisciplinare, per costruire un ambulatorio dedicato alle situazioni più complesse.
Ducci. Grazie Diana. Mi sembra importante questa conferma che le organizzazioni virtuose nascono dalla clinica, e dall’integrazione dei processi di valutazione e dalle strategie di intervento. Questo vale per il carcere e vale per i disturbi dello sviluppo. Sono d’accordo quando Diana dice che mettere insieme i servizi può essere solo un fatto amministrativo, se noi non trasformiamo questa integrazione in un cambiamento, in un’evoluzione. Integrare significa che da soggetti diversi nascono soggetti nuovi, e modalità di lavoro nuove e diverse, perché se invece è soltanto una federazione che definisce le competenze allora non riusciremo mai a fare integrazione. Ora lascio la parola a Fabrizio Starace. La domanda è la stessa: quali sono i cambiamenti organizzativi che occorre adottare di fronte ad un mondo che cambia?
Starace. Grazie Giuseppe, grazie a voi tutti. Complimenti per questo splendido contesto nel quale vi trovate, con molta invidia anche per i luoghi in cui si fa formazione che devono avere le stesse qualità dei luoghi dove si fa la cura, dove si fa l’accoglienza, dove si fa la riabilitazione. Questo sarebbe un grande capitolo da aprire e che cito soltanto perché le ultime notizie di stampa che sono state poco attenzionate dai più, ci segnalano che purtroppo nella rimodulazione del PNRR oltre un miliardo di fondi dovrà essere attinto, per realizzare le opere previste dal PNRR, dai fondi del cosiddetto ex articolo 20, quello che viene utilizzato per mettere a norma, ed edificare in maniera qualitativamente più appropriata tutti i servizi sanitari. Quindi non mi attendo tempi favorevoli se questa norma dovesse divenire cogente così come il Governo ha concordato con Bruxelles. Ma per tornare alla questione che ponevi, la situazione, e il tema in discussione, dimostri ancora una volta come la comunità dei professionisti dei servizi sia molto più avanti di quella rappresentata da chi ha ruolo e responsabilità per programmare e quindi dovrebbe interpretare un ruolo di visione più a lungo termine. Mi spiego. I nostri servizi, quelli della salute mentale, delle dipendenze, della neuropsichiatria infantile, continuano ad avere le caratteristiche che avevano nel 1978 quando il Moloch da abbattere era l’ospedale psichiatrico e quando il target fondamentale erano pazienti che qui risiedevano da lungo termine in maniera aspecifica per quanto riguarda i raggruppamenti diagnostici e le connotazioni sociali e quant’altro, e hanno continuato ad avere questo target privilegiato. Io non metto in discussione l’importanza di un target costituito da disturbi psichiatrici, dico tuttavia che arriva potente dalla società una richiesta di intervento, di presenza e di accoglienza in salute mentale alla quale i nostri servizi stentano a dare risposte. Questo è il motivo per cui si moltiplicano interventi spot di assoluto scarso livello in termini di impatto. Per esempio quello, mi perdonino i colleghi psicologi che conoscono la mia posizione in merito, del bonus psicologo, che evidentemente è disarticolato rispetto al complesso degli interventi socio-sanitari integrati e rischia veramente di essere una goccia nell’oceano. Diverso sarebbe ridiscutere, alla luce di queste riflessioni, anche alla luce di un’analisi puntuale, approfondita, competente, della realtà attuale. Diverso sarebbe ridiscutere il mandato complessivo della salute mentale. Siamo ad oltre quarantacinque anni da quando il suo statuto è stato ridefinito, ma da allora le sue caratteristiche sono cambiate, anche quelle demografiche, l’invecchiamento della società, l’aumento delle persone con un po’ di patologie incluse quelle mentali, i livelli ridotti di autosufficienza e la richiesta di sostegno, in una diversa fase della vita, l’aumento dei nuclei familiari monocomponenti, e quindi il venire meno di quello straordinario strumento di welfare comunitario che è la famiglia, l’incremento delle persone in condizioni di povertà e disoccupazione, l’arrivo dei flussi migratori e quindi i livelli di multiculturalità che questi flussi impongono quando non li si voglia intercettare solo nella stanza di un pronto soccorso, ma quando ci si voglia porre problemi radicali e sfide radicali che si pongono ad un sistema che voglia definirsi ancora universalistico. Non cito la diffusione, fin dalla giovane età, delle sostanze psicoattive, so che questo è un tema a cui voi tutti, Giuseppe soprattutto, ponete grandissima attenzione, ma lasciatemi una battuta. Quella che dieci, vent’anni fa era un’eccezione, oggi è la regola. E infine mi tocca citare le contraddizioni del sistema penitenziario e giudiziario e il loro rapporto perverso con la psichiatria, che gravano in maniera pesantissima sull’operatività dei nostri servizi. Tutto questo colloca, come dire, una sorta di sofferenza comunitaria, una sorta di sofferenza urbana, l’ha chiamata Saraceno, in cui la salute mentale non è più soltanto un’area clinica, ma diventa una vera e propria area di mediazione sociale. Anche qui, io non respingo questo tipo di accezione, dico solo che assegnarci questo tipo di funzione, a partire da quell’iniziale statuto definito quarantacinque anni fa, è assolutamente improprio. È come provare a svuotare il mare avendo a disposizione un bicchiere. Allora qual è la ridefinizione dei servizi che dobbiamo immaginare? Certamente non dei servizi isolati, autonomi, a sé stanti, con le proprie nicchie ecologiche di sopravvivenza e le proprie rendite di posizione, questo è del tutto evidente. Ma prima ancora di interrogarci sulle modalità più efficaci per integrare i servizi, noi dobbiamo chiedere con chiarezza che venga esplicitato il mandato che a noi viene affidato. Se il mandato è quello malamente espresso dalla politica negli ultimi anni di intercettare i disturbi emotivi comuni, ed espresso malamente, lo ripeto, con iniziative come quella del bonus psicologico, allora i nostri dipartimenti dovranno avere relazioni molto più strette con quelli che in alcune regioni si chiamano dipartimenti di cure primarie, quelli che appunto venivano descritti prima, la rete dei medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta. O quella che viene definita, nell’architettura del DM 77, che ridefinisce la modalità della medicina territoriale e la rete delle case di comunità. Io lavoro in una regione che ha un terzo delle case di comunità presenti in tutto il territorio nazionale, sappiamo quanto possano essere efficaci, sappiamo quanto siano assolutamente velleitarie idee di annessione, inglobamento gestione ripartita delle risorse della salute mentale. Il dipartimento di salute mentale nella sua visione integrata, con le tre componenti che abbiamo detto, deve essere e rimanere un dipartimento gestionale che ha relazioni profonde, continue e competenti con le articolazioni di primo livello, che hanno un compito delicatissimo, quello di intercettare il disturbo emotivo comune, che per frequenza e possibilità di impatto anche sul piano socio-economico è quello che viene maggiormente percepito dalla popolazione generale. Non dimentichiamo che non è la schizofrenia quella che pesa di più sul piano socio-economico, quella che determina l’impatto maggiore, ma è la depressione. Allora se tutto questo è vero, questa funzione delicata deve essere svolta in relazione con i centri di secondo livello, come io immagino debbano sempre più qualificarsi i servizi del dipartimento di salute mentale, attraverso sia una funzione di accoglienza e prima gestione sia di filtro. Per fare questo sono necessari degli strumenti operativi, so che ripeto un mantra che avete ascoltato mille volte da Giuseppe Ducci, ma per fare tutto questo occorre, è vero, una definizione organizzativa, ma occorrono risorse appropriate, risorse che siano non soltanto economiche, ma anche di personale. Occorrono risorse culturali; prima Diana segnalava quanto queste risorse culturali siano ancora in uno stato embrionale perché la nostra formazione professionale che noi critichiamo quando parliamo dei servizi a silos, in realtà si struttura in maniera speculare a quella che ci viene fornita nel percorso formativo, che è strutturato a silos. Quanti operatori della medicina o della psichiatria in particolare o delle dipendenze o della neuropsichiatria hanno avuto nel corso del loro percorso formativo la possibilità di interagire con i professionisti delle altre aree vicine? Lo sappiamo, è stato citato l’autismo, ma come ci ricordano i familiari l’autismo non guarisce a diciotto anni, e quindi questa barriera artificiale è posta dall’anagrafe e dalle scuole di specializzazione, che sono per carità necessarie in un periodo iniziale della formazione, ma poi vanno dimenticate per andare verso modelli che non si limitino appunto alla barriera anagrafica, favorendo la presenza di psichiatri dell’età adulta già dai tredici, quattordici anni, nei programmi integrati, e favorendo la presenza di neuropsichiatri infantili fin ben oltre i diciotto anni, come del resto già avviene nei servizi più avanzati. Tutto questo deve divenire non solo oggetto di pratiche, di buone pratiche, ma anche di buone pratiche di insegnamento, di buone pratiche di formazione, perché è da lì che si determinano e si possono prevedere i risultati che ci saranno.
Se Giuseppe vuole, posso anche provare a fare una carrellata di quelle che considero oggi le contraddizioni più ampie che sono aperte nel nostro sistema di cura, ma forse vale la pena in questo contesto segnalare solo che senso ha una programmazione che non considera gli elementi di diversificazione che ho citato poc’anzi e non considera gli ostacoli che hanno impedito alla programmazione precedente di realizzarsi. Se nel Piano nazionale azioni per la salute mentale c’era una grande attenzione al tema dei persi di vista, dei drop out, e noi neanche nei nostri sistemi informativi, che sono tra i più perfezionati di cui dispone la sanità pubblica, non solo italiana, ma internazionale, non mettiamo in campo un’opera di recupero di informazioni rispetto ai loro dati, di comprensione delle comunicazioni degli abbandoni non concordati, è evidente che non potremo meravigliarci quando ritroveremo queste persone che con il loro abbandono hanno espresso un voto di sfiducia nei confronti dell’attuale governo della salute mentale, non dovremo meravigliarci poi se ce li troviamo nelle stanze della medicina di urgenza ed emergenza quando ormai i disturbi hanno raggiunto un livello eclatante e veniamo chiamati forse più per curare il disturbante.
A mio avviso il dipartimento integrato è la modalità più avanzata, ma io vi lancio una possibilità di visione anche a lungo termine: vedo un dipartimento nel quale i professionisti provengono da specialità differenti, ma i servizi hanno un assetto unitario per abbattere completamente quelle differenze che in alcuni casi sono penalizzanti mentre in altri potrebbero essere vitalizzanti. Pensate al tema della responsabilità che incide come una spada di Damocle sull’operare dei colleghi psichiatri dei servizi di salute mentale: posizione di garanzia, che cosa succede se, chi si prende la responsabilità se. Trasferitela nei servizi per le dipendenze, nei servizi per le dipendenze tutto questo non esiste. Perché non assumiamo questa modalità, questo modo di vedere, questa capacità anche di riproporre il proprio intervento professionale? Questo conferma quello che diceva Giuseppe, qui non si tratta di annessioni o di colonialismo da parte di nessuna specialità su nessun’altra, si tratta di trovare i modi migliori per lavorare, affidando, a prescindere dalla specializzazione, la responsabilità di queste macrostrutture a chi oltre ad avere competenze cliniche specialistiche ha soprattutto competenze manageriali gestionali e visione di sanità.