Chiudi Popup
Il museo informa Vedi virtual tour Inizia ora

LA NEWSLETTER DEL MUSEO

share on facebook share on twitter

La violenza sulle donne in Italia nell’ambito della violenza di genere

Massimo Di Genio

Referente psichiatra IPC per la Medicina Legale DSM ASL Roma 1
UOC SPDC San Filippo Neri

L’articolo analizza i dati raccolti su tutto il territorio italiano nei centri antiviolenza per elaborare ed illustrare le ragioni sociali e psicologiche della violenza di genere, in modo da delineare un quadro complesso ed articolato che evidenza l’assoluta peculiarità del fenomeno e la necessità di interventi mirati, oggi più efficaci grazie alle norme previste dal d.lgs. n. 149/2022, con il quale è stata data attuazione alla l. n. 206/2021.

The article analyzes in depth the data collected throughout the Italian territory in anti-violence centers to elaborate and illustrate the social and psychological reasons for gender-based violence, in order to outline a complex and articulated framework which highlights the absolute peculiar- ity of the phenomenon and the need for targeted interventions, which are more effective today thanks to the provisions of Legislative Decree no. 149/2022, which implemented Law no. 206/2021.

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. Indagine centri antiviolenza anno 2020. – 3. Fattori di rischio. – 4. L’autore della violenza. – 5. Il ciclo della violenza.

 

 

  1. Introduzione

Il termine “genere” è stato introdotto per la prima volta nel 1955 dal sessuologo John Money ma si è diffuso solo nel 1970, grazie alla nascita delle teorie femministe.

Secondo la teoria del genere, le persone nascono maschio o femmina ma solo successivamente imparano a essere uomini, donne o entrambi.

La violenza di genere è un tipo di violenza fisica, psicologica, sessuale e istituzionale, inclusi gli atti persecutori del cosiddetto stalking, lo stupro, il femminicidio, che riguardano un vasto numero di persone discriminate.

È esercitata contro qualsiasi persona o gruppo di persone sulla base del loro orientamento sessuale, identità di genere, sesso ed ha un impatto negativo sulla loro integrità fisica e/o psicologica. Include la violenza e la discriminazione contro le donne, contro gli uomini, contro le comunità LGBTQ+ ed include sessismo, misoginia, misandria e omotransfobia.

Secondo la Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, sancita dal Consiglio d’Europa nel maggio 2011, con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.

L’elemento principale di novità della Convenzione è il riconoscimento della violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione. Essa prevede anche la protezione dei bambini testimoni di violenza domestica e richiede la penalizzazione delle mutilazioni genitali femminili. La Convezione definisce la “violenza nei confronti delle donne” come una “violazione dei diritti umani” e una forma di “discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”. L’espressione “violenza domestica” designa inoltre “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’in- terno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.

La Convenzione di Istanbul riconosce che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica ma afferma che “la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato”. A questo proposito, l’art. 1 della dichiarazione Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, così recita: “È ‘violenza contro le donne’ ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”[1]. La legge n. 69/2019 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, rientra interamente nel quadro delineato dalla Convenzione di Istanbul del 2011. Il provvedimento normativo definito “Codice Rosso” introduce importanti modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e ad altre disposizioni normative, intervenendo su un catalogo di reati in materia di violenza domestica e di genere, con il preciso fine di velocizzare l’instaurazione dei procedimenti penali e, conseguentemente, accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti a protezione delle vittime di tali reati. Prima del Codice Rosso, in Italia solo con la legge n. 66 del 15 febbraio 1996, “Norme contro la violenza sessuale”, si afferma il principio per cui lo stupro è un crimine contro la persona e non contro la morale pubblica, mentre la legge che tutela le vittime di stalking e che punisce gli autori di atti persecutori è la n. 38 dell’aprile 2009, derivata dalla conversione del decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009.

Più segnatamente, nel nostro Paese, i dati Istat[2] mostrano  che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. Gli stupri sono stati commessi nel 62,7% dei casi da partner.

I dati del Report del Servizio analisi criminale della Direzione Centrale Polizia Criminale aggiornato al 20 novembre 2022 evidenzia che:

  • nel periodo 1 gennaio – 20 novembre 2022 sono stati registrati 273 omicidi (+2% rispetto allo stesso periodo del 2021), con 104 vittime donne (- 5% rispetto allo stesso periodo del 2021 in cui le donne uccise sono state 109)
  • le donne uccise in ambito familiare/affettivo sono state 88 (- 6% rispetto dello stesso periodo del 2021 in cui le vittime sono state 94); di queste, 52 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner (-16% rispetto alle 62 vittime dello stesso periodo del 2021).

Secondo l’ultima nota Istat sulle vittime di omicidio, nel 2021 sono stati commessi 303 omicidi. In 184 casi le vittime sono uomini e in 119 sono donne (il 39,3% del totale). Le vittime uccise in una relazione di coppia o in famiglia sono 139 (45,9% del totale), 39 uomini e 100 donne.

Il 58,8% delle donne è vittima di un partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019). Fra i partner assassini nel 77,8% dei casi si tratta del marito, mentre tra gli ex prevalgono ex conviventi ed ex fidanzati. Il 25,2% delle donne è invece vittima di un altro parente, il 5% di un conoscente e il 10,9% di uno sconosciuto.

La percentuale di donne uccise nella coppia o in famiglia è più alta tra le 45-54enni (94,7%) e tra le 55- 64enni (91,7%).

Tra i moventi degli omicidi, il primo posto è occupato da “lite, futili motivi, rancori personali” (45,9%), valore rilevante per le vittime di entrambi i sessi (47,3% per gli uomini e 43,7% per le donne). Al secondo posto figurano i “motivi passionali” (11,6% degli omicidi), con una netta distinzione per sesso (20,2% per le donne e solo 6,0% per gli uomini)[3].

 

  1. Indagine centri antiviolenza anno 2020

Dati dal 1° gennaio al 31 dicembre 2020, alla cui raccolta han- no partecipato 81 su 82 Associazioni aderenti a D.i.Re per un totale di 106 su 109 centri antiviolenza. Nelle statistiche che seguono si farà sempre riferimento esclusivamente ai 106 centri che hanno risposto al questionario[4].

Nell’anno 2020 sono state accolte complessivamente 20.015 donne, per un totale di 106 su 109 Centri antiviolenza. Di queste 13.390 sono state donne accolte per la prima volta. Le italiane erano il 68%, le straniere il 26%, mentre il 6% del campione non aveva rilevazione in tal senso. L’età più rappresentata era compresa tra i 40-49 anni[5].

Il 34,8% delle donne denuncianti un atto di violenza aveva un lavoro, mentre le disoccupate erano solo il 22,1%. Nel 17,3% non era stata fatta rilevazione in tal senso.

Le forme di violenza esercitata sulle donne sono multiple e di varia natura e sono consolidate nel tempo, a conferma della struttura della violenza maschile sulle donne.

Di rilievo il dato che nel 77,3% dei casi era stata perpetrata violenza di tipo psicologico, nel 60,3% violenza di tipo fisico, mentre nel 33,4% violenza di tipo economico.

–          Violenza economica: ad esempio il partner potrebbe impedire la formazione o l’impegno lavorativo della compagna. L’abuso economico è comune in quelle famiglie in cui c’è un unico partner che gestisce le entrate e le uscite economiche e l’altro è in una condizione di dipendenza forzata. Non avendo accesso al denaro se non tramite il partner violento, la vittima si sente completamente in balìa dell’abusante. L’abuso economico fa sentire la donna fallita e dipendente e mina il suo valore personale aumentando l’erronea convinzione di avere bisogno del partner per sopravvivere.

–          Violenza psicologica: insieme di intimidazioni, minacce o comportamenti che incutono paura e che perseverano nel tempo. Alcuni esempi: evitare che la vittima parli con altre persone se non sotto il permesso dell’abusante, non consentire alla vittima di lasciare l’appartamento, minacciare o ricattare la vittima di violenza quando è in disaccordo con il partner abusante, ecc.

La violenza emotiva è causata da persistenti insulti, umiliazioni e/o critiche che nel tempo possono distruggere il valore che la persona ha di sé.

–          Violenza fisica: è la forma di violenza più riconoscibile in quanto visibile e coinvolge l’uso della forza contro le vittime con conseguenti lesioni. Si parla di abuso fisico anche quando l’abusante ha percosso un paio di volte la partner causando lievi ferite che non necessariamente richiedono una visita in ospedale.

Le donne accolte non hanno alcun tipo di disagio e/o dipendenza in oltre la metà dei casi. Il dato non rilevato per questo tipo di informazioni è molto alto ed è dovuto ad una difficoltà da parte dei centri a rilevarlo, legata alla riservatezza delle informazioni condivise dalla donna. Soltanto il 27% delle donne accolte decide di avviare un percorso giudiziario. Tale percentuale non stupisce per diverse ragioni: la vittimizzazione secondaria nelle aule dei tribunali da una parte e l’approccio metodologico di uscita dalla violenza adottato dai centri dall’altra, che punta all’autodeterminazione della donna e non soltanto alla denuncia[6].

 

Le conseguenze

L’omicidio è la più grave conseguenza della violenza sulle donne. Donne che a volte decidono di ricorrere al suicidio perché non riescono più a sopportare.

Il 42% delle donne oggetto di violenza ha riportato ferite e/o lesioni permanenti che hanno rovinato le loro vite. In caso di violenza sessuale, possono esserci altre gravi conseguenze: gravidanze indesiderate, aborti indotti, malattie sessualmente trasmissibili.

Le conseguenze di tipo psicologico sono rappresentate da depressione, disturbo post traumatico da stress, disturbi del sonno, disordini alimentari, tentativi suicidari[7].

 

  1. Fattori di rischio

A rendere un uomo violento possono contribuire (fattori precipitanti):

–          basso livello di istruzione;

–          avere subito violenza da bambino;

–          avere assistito a scene di violenza familiare;

–          abuso di alcool o droghe;

–          accettare la violenza come un fatto culturale;

–          comportamento antisociale e/o delinquenziale al di fuori della famiglia; disparità di genere;

–          eccessivo carico di lavoro oppure uno stato di disoccupazione.

 

Quando si presenta una o più di queste condizioni, aumenta- no le probabilità che una donna possa subire violenza, sessuale e non.

Il partner violento tende a mettere in atto ed a manifestare:

–          possessività, gelosia e sospettosità;

–          tratti paranoici;

–          tendenza al controllo familiare (incluse le attività finanziarie e sociali); bassa autostima;

–          Dipendenza affettiva patologica (nella vittima ma anche nell’aggressore)

–          intimidazioni e minacce per spaventare la vittima;

–          isolamento sociale per evitare che la vittima chieda aiuto;

–          svalorizzazione della vittima finalizzata alla dipendenza dal partner.

 

  1. L’autore della violenza

L’età è compresa prevalentemente (oltre il 44,4%) nella fascia tra 30 e 59 anni e quasi nulla è la percentuale di giovani sotto i 18 anni [8].

Nel 47,6% dei casi il maltrattante ha un lavoro stabile. La percentuale di dato “non rilevato” è riferito a un terzo circa.

Il maltrattante è quasi sempre il partner oppure l’ex partner. Questo significa che nel 72,3% dei casi la violenza viene esercitata da un uomo in relazione con la donna. Se a questo dato si aggiunge la percentuale dei casi in cui l’autore è un fa- miliare si arriva alla quasi totalità (82,3%).

Gli autori della violenza agita sulle donne soltanto nel 15% circa dei casi hanno una qualche forma di dipendenza da sostanze stupefacenti. Il dato non rilevato è alto, pari al 36,4% e testimonia una difficoltà nel rilevare le informazioni sull’autore della violenza in quanto fornite indirettamente” dalla donna.

 

  1. Il ciclo della violenza

Nelle relazioni violente, questo ciclo si ripete ininterrottamente crescendo d’intensità e pericolosità. Col procedere della relazione la donna è sempre più in pericolo, la fase luna di miele diviene più breve mentre le altre due aumentano in frequenza e gravità.

Nonostante questo, molte donne ancora decidono di non denunciare e di ritornare dal partner violento. Questo accade anche perché le vittime ritengono erroneamente che la situazione possa cambiare, che è stata colpa loro, che è ancora tutto sotto il loro controllo e che se faranno maggiore attenzione la prossima volta non succederà[9].

 

Fase 1. Crescita della tensione

In questa fase, il partner può essere estremante critico, ira- scibile ed esigente. La donna prova a tenere sotto controllo la situazione tentando di calmare il partner o evitando di dire o mettere in atto azioni che potrebbero sollecitare la sua ira. Con l’aumento della tensione, i tentativi della donna possono perdere di efficacia mentre subentrano le minacce dirette o implicite da parte del partner accompagnate, ad esempio, da comportamenti scontrosi e silenzi ostili. Questo potrebbe già essere il momento giusto per chiedere un aiuto esterno.

 

Fase 2. Esplosione della violenza

Il partner abusante perde il controllo e mette in atto il comportamento violento. L’azione può cominciare con insulti e minacce alle quali può seguire la violenza fisica: spinte e quant’altro, per poi arrivare a schiaffi, pugni e calci fino alla minaccia con oggetti contundenti o armi, o all’effettivo uso di questi. Al fine di segnare ulteriormente il proprio potere, l’abusante potrebbe ricorrere alla violenza sessuale. Infine, in seguito all’esplosione della rabbia, è possibile che provi una sensazione di rilascio della tensione dalla quale può divenire dipendente.

Questo meccanismo rafforza il ripetersi del comportamento violento.

La donna in questa fase si sente completamente impotente nel porre in essere dei tentativi di de-escalation e potrebbe decidere di non reagire per paura. Dopo l’iniziale shock, può sentirsi responsabile della reazione violenta, ed è possibile che neghi l’accaduto o minimizzi la sua gravità, rifiutandosi di rivolgersi alle autorità competenti per denuncia- re la violenza e i maltrattamenti o ritirando la denuncia qualora fosse partita.

 

Fase 3. La luna di miele

Questa fase si divide in due sottofasi:

  1. a) Colpa e Scuse. Dopo l’episodio di violenza, l’abusante potrebbe inizialmente sentirsi in colpa e chiedere scusa per il suo comportamento. In realtà è molto più preoccupato per se stesso e per la sua immagine. Potrà essere comunque amorevole, attento e potrebbe mostrare rimorso per la sua azione, potrebbe chiedere perdono e promettere di non farlo mai più, magari di andare in terapia e di fare di tutto per cambiare affinché la donna non si separi da lui, minacciando talvolta anche il suicidio.
  2. b) Scarico di responsabilità. È molto comune che l’abusante si presenti con fiori o doni che sancirebbero il miglioramento avvenuto e la promessa di rinunciare a qualsia- si elemento “esterno a se stesso” in grado di instillare la tensione come il bere, il lavorare troppo, una relazione extra-coniugale, la situazione economica, lo stress eccessivo, ecc. tutti fattori che entrambi vorrebbero credere essere la “causa effettiva” dell’esplosione. Inoltre accade spesso che giustifichi la sua reazione attribuendo la responsabilità del suo comportamento alla donna che in qualche modo l’avrebbe provocato.

La fase della luna di miele è paragonabile a una trappola che inganna e incatena la vittima. Durante questa fase, la vittima spesso vede il proprio compagno come solo, bisognoso, di- sperato e ritiene di essere l’unica che può aiutarlo e salvarlo. Ogni qualvolta il ciclo della violenza si ripete, questo crea nella vittima ciò che Seligman[10] chiama “impotenza appresa”, ossia la vittima apprende che qualsiasi cosa faccia non potrà evitare gli abusi. Pertanto subirà passivamente le violenze sentendosi ormai arresa e impotente[11]. Questo fa sì che la vittima non chieda aiuto alla rete di supporto sociale, ma piuttosto mantenga le dinamiche d’abuso.

Tutti questi fattori ci indicano che chi agisce abusi e violenze in base al genere, acquisisce spesso questi comportamenti dalla famiglia, dalla società e dalla cultura di appartenenza. Laddove sia presente un disagio psichico nell’abusatore, che come abbiamo visto emerge nel 4,5% dei casi segnalati, questo è rappresentato soprattutto da disturbi psicotici e da disturbi di personalità di cluster B (in prevalenza narcisistici, borderline ed antisociali) ed in subordine di cluster A (in prevalenza schizoidi e paranoidi).

Nelle vittime spesso è presente un disturbo dipendente di personalità.

Un disturbo di personalità è definito come un modello abituale di esperienza o comportamento che si discosta notevolmente dalla cultura a cui l’individuo appartiene e si manifesta in almeno due delle aree cognitiva, affettiva, del funzionamento interpersonale e di quello comportamentale. Si parla dunque di Disturbo di Personalità per indicare un modello di esperienza interiore e di comportamento marcatamente diversi da quelli del contesto sociale e culturale cui la persona appartiene. Questi disturbi sono caratterizzati da tratti personologici improntati a spiccata rigidità, difficilmente modificabili dalle esperienze di vita e applicati quasi indiscriminatamente nelle più diverse situazioni. Si presentano fin dall’adolescenza o nella prima età adulta, sono stabili nel tempo e determinano disagio o menomazione di entità direttamente proporzionale alla gravità e pervasività del disturbo stesso. In altri termini, tali modelli di esperienza interiore e di comportamento sono generalmente vissuti con modalità “egosintoniche” (accettabili per il portatore che non ne conosce altri) ed “alloplastiche” (il portatore tende a cambiare l’ambiente e non se stesso). Ma l’esperienza di disagio spesso aumenta perché queste modalità di entrare in rapporto con il mondo e con gli altri sono, rigide, maladattative e sovente comportano una condizione di disagio personale, sociale, lavorativo clinicamente significativa; questo non è quasi mai riconosciuto dal portatore del disagio, il quale manca di insight, non si rende conto del proprio impatto sugli altri e non tende a cercare aiuto.

I soggetti con disturbo della personalità dipendente vogliono essere accuditi e il doversi prendere cura di sé da soli procura loro estrema ansia. Per ricevere l’accudimento che desiderano, sono disposti a rinunciare alla loro indipendenza e ai loro interessi. Quindi, diventano eccessivamente dipendenti e sottomessi. Negli Stati Uniti, il disturbo della personalità dipendente si manifesta in meno dell’1% della popolazione generale[12] e viene diagnosticato con maggiore frequenza nelle donne.

Per una diagnosi di disturbo dipendente di personalità i pazienti devono avere[13]

Un persistente, eccessivo bisogno di essere assistito, con conseguente comportamento sottomesso.

Questo bisogno persistente è evidenziato dalla presenza di ≥ 5 dei seguenti segni o sintomi:

 

  • Difficoltà a prendere decisioni quotidiane senza un’eccessiva quantità di consigli e rassicurazioni da parte di altre persone.
  • Necessità di ottenere che altri siano responsabili nei più importanti aspetti della loro vita.
  • Difficoltà ad esprimere disaccordo con gli altri perché temono la perdita di sostegno o di approvazione.
  • Difficoltà di intraprendere personalmente progetti perché non sono sicuri del loro giudizio e/o delle loro abilità.
  • Inclinazione a sacrificarsi (p. es., fare i compiti sgradevoli) per ottenere il sostegno degli altri.
  • Sentimenti di disagio o di impotenza quando sono soli perché temono di non potersi prendere cura di se stessi.
  • Urgente bisogno di stabilire un nuovo rapporto con qualcuno che fornirà assistenza e sostegno quando finisce una stretta relazione.
  • Preoccupazione irrealistica con paura di essere lasciati a prendersi cura di sé.
  • Inoltre, i sintomi devono avere inizio nella prima età adulta.

 

I principi generali del trattamento del disturbo dipendente di personalità sono simili a quelli per tutti i disturbi di personalità.

 

La psicoterapia psicodinamica e la terapia cognitivo-comportamentale, che possono aiutare i pazienti con disturbo dipendente di personalità, si concentrano sull’esplorazione della paura di indipendenza e sulle difficoltà nella propria autoaffermazione. Peraltro i curanti dovranno fare attenzione ad evitare di promuovere la dipendenza nella relazione terapeutica.

 

Le evidenze sulla terapia farmacologica per il disturbo dipendente di personalità sono scarse e non ci sono studi controllati con placebo[14]. Può eventualmente essere indicato, laddove necessario, l’uso di farmaci antidepressivi mentre le benzodiazepine non vengono utilizzate perché siffatti pazienti presentano un aumentato rischio di abusarne.

[1] Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 1993.

[2] https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne

[3] ibidem

[4] Rilevazione dati D.i.Re 2020, https://www.direcontrolaviolenza.it/.

[5] ibidem

[6] ibidem

[7] WHO settembre 2022.

[8] Rilevazione dati D.i.Re 2020, https://www.direcontrolaviolenza.it/.

[9] Walker  Lenore E. A.,   Abused Women and Survivor Therapy, American Psycological Association, Washington D.C.,1996.

[10] Martin E.P. Seligman, Helplessness: On Depression, Development and Death, San Francisco, 1975.

[11] Walker Lenore E. A., The Battered Women, New York, 1979

[12]  Morgan TA, Zimmerman M: Epidemiology of personality disorders. In Handbook of Personality Disorders: Theory, Research, and Treatment. 2nd ed, edited by WJ Livesley, R Larstone, New York, NY: The Guilford Press, 2018, pp. 173-196.

[13] American Psychiatric Association: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5th ed, Text Revision (DSM-5-TR). Washington, DC, American Psychiatric Association, 2022, pp 768-771.

[14] Bornstein RF: The dependent personality: developmental, social, and clinical perspectives. Psychol Bull. 112(1):3-23, 1992.

Iscriviti alla newsletter