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DAL GARANTE NAZIONALE DEI DIRITTI DELLE PERSONE PRIVATE DELLA LIBERTA’

Non si può prescindere dalla data in cui scrivo queste poche righe: oggi è il 13 maggio del 2023, il giorno dei quarantacinque anni dall’approvazione della cosiddetta “legge Basaglia”: il nome è indicativo del riconoscimento del pensiero e dell’esperienza del grande psichiatra veneziano anche se lui non amava questa personalizzazione; né amerebbe oggi constatare che a lui si addebitino gli esiti di quella legge, anche quelli che tuttora mostrano alcune criticità.

È una data evocativa di due aspetti a mio parere fondamentali. Il primo riguarda il paradigma in sé che la norma ha mutato e che avrebbe poi trovato il suo completamento con la legge del dicembre successivo, relativa alla definizione del Servizio sanitario nazionale. Il secondo riguarda la data della sua adozione e l’implicita immagine del ‘sapere’ politico e istituzionale che tale data proietta.

Partiamo proprio da questo secondo aspetto. Non vi è alcun dubbio che si concludeva in quel giorno il lungo percorso di un dibattito che non aveva coinvolto soltanto la limitata cerchia specialistica, ma si era esteso fino a includere confronti e riflessioni della complessiva opinione pubblica, perché incideva su schemi interpretativi delle difficoltà e delle diversità radicati nel sapere consuetudinario. Un dibattito che peraltro già si era concretizzato sul plano delle prassi con iniziative che avevano superato cancelli e muri, proiettando nella quotidianità la concretezza del tema di cui si discuteva. Quindi, la data era un punto di arrivo naturale. Eppure, erano giorni tremendi: quattro giorni prima il più drammatico evento della Repubblica si era concluso con il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, le persone erano in strada e il potere politico era afasico e diviso, al di là dell’apparente omogeneità. Ciononostante, la consapevolezza del compito legislativo era così solida da non aver determinato il fermarsi di un processo che si era sviluppato in dibattiti, riflessioni, sperimentazioni. Il percorso proseguì e si completò. Immediato sorge il parallelo con il presente: oggi un accadimento qualsiasi di cronaca determina una frenetica rincorsa a decreti, mutamenti normativi nell’affannosa ricerca di consenso perché il legislatore ha perso la consapevolezza della propria funzione d’indirizzo, divenendo subalterno al mutare delle richieste di immediatezza che provengono dagli strati più timorosi e meno riflessivi della collettività.

Questo per quanto attiene la data e la capacità politica del non interrompere i percorsi intrapresi, anche di fronte a eventi tragici. Quanto al contenuto, ciò che si approvava non era – e non è – indicativo soltanto di una diversità nella caratterizzazione e nella lettura medica di un disagio o di una malattia; né dell’implicita e quasi ovvia incidenza del contesto sociale in disturbi che del rapporto con sé e con gli altri hanno la strutturazione e l’espressione principali. No, oltre a tutto ciò, si approvava la rottura della funzione psichiatrica allora di fatto configurata come risultato di una duplice delega da parte della società: la delega all’uomo di scienza chiamato a lenire o risolvere la vita dell’individuo che sviluppa il disagio e la contemporanea delega al tutore dell’ordine per lenire alla società il disagio dato dall’esistenza stessa di tale individuo, così contribuendo alla crescita di una presunta percezione di sicurezza. Quindi, non soltanto un mutamento dell’approccio medico al problema del disturbo psichico e delle modalità con cui affrontarlo, bensì anche delle culture con cui la società affronta la complessità che la abita.

Un mutamento culturale, quindi. E forse proprio questo aspetto è quello che periodicamente viene rimesso in crisi, pur partendo da criticità effettive nell’applicazione di quella legge nel corso dei quarantacinque anni: lo scarso investimento nei servizi territoriali e l’abbandono progressivo della centralità della funzione pubblica nella sanità, in generale, e nella sua funzione di ‘cura’ – in senso ampio del termine – in particolare. Intendendo con questo termine la presa in carico effettiva delle difficoltà soggettive in funzione dell’individuazione della maggiore autonomia possibile di ogni persona, qualunque sia la difficoltà di cui è portatrice, e la sua assoluta titolarità di diritti incomprimibili. Le difficoltà, quindi, non sono mancate e non mancano e determinano nelle famiglie, nelle collettività non autonomamente scelte, quale è per esempio il carcere, quel senso di abbandono che talvolta può portare a interrogarsi sul fondamento delle scelte legislative di allora. Si tratta di una regressione verso una presunta semplicità nell’affrontare temi complessi che si sa bene essere improduttiva. Ma si tratta altresì di un sentimento a cui non serve rispondere in termini dogmatici, perché sono espressione di interrogativi che chiedono risposte.

Le risposte vanno comunque trovate in quel solco culturale che la legge 180 del 1978 ha tracciato in modo concettualmente irreversibile: in primo luogo, l’abbandono dell’impropria intersezione tra funzione medica e funzione custodiale. Un’intersezione che fino ad allora trovava l’affermarsi della seconda sulle scelte della prima, con il pieno consenso della professione stessa che riteneva la funzione custodiale dovere civico integrante la propria professionalità. Il secondo solco è nella disgregazione di quella totalità della complessiva gestione della persona, non ritenuta soggetto ‘pieno’, che non proiettava la funzione medica verso il soggetto stesso, ma verso le altre persone rispetto alle quali poteva essere portatore di pericolo.

Totalità, separazione, incapacitazione, uniformità erano i termini del vocabolario precedente. Un vocabolario nuovo veniva introdotto. Perché si affermava il principio che il disagio psichico richiede differenziazioni, analisi puntuali e contestualizzazione della sua origine, del suo svilupparsi e del suo futuro. Richiede la connessione territoriale, intesa anche come connessione terapeutica, ambientale e relazionale; richiede risorse e continuità degli operatori di riferimento. Soprattutto il riconoscimento della piena titolarità dei diritti.

Un cambio di vocabolario non è mai un processo semplice: ha bisogno di tempi, di lentezze, ma senza alcuna tentazione di sguardi all’indietro: questa continua a essere la sfida del presente.

Mauro Palma

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